martedì 29 maggio 2012

"Abbiamo perduto l’innocenza"



Riecco Lars Kepler. Sempre più nero, più feroce, più rabbioso di sempre per la gioia dei tre milioni e passa di lettori che nel mondo seguono con trepidazione le investigazioni spesso poco ortodosse e poco scientifiche dell’ispettore capo della polizia di Stoccolma Joona Linna alle prese con omicidi efferati, spesso al limite del paranormale.

È così anche in quest’ultimissimo La testimone del fuoco (Editore Longanesi, pagg. 594, euro 18,60) dove la vittima è una quattordicenne ritrovata nella sua camera presso la casa di recupero per ragazze in difficoltà, nei dintorni di Stoccolma. Neanche dirlo le pareti sono schizzate di sangue, le lenzuola ne sono intrise.

Nessun testimone a parte una delle ragazze che è misteriosamente fuggita nella notte. E, a parte una certa Flora che dice di aver visto la ragazza e l’arma del delitto, quella che nessuno riesce a trovare. Ma nessuno le crede perché Flora, al momento dell’omicidio, era a centinaia di chilometri di distanza. Eppure lei ha visto. Già, perché lei è una medium. Insomma, gli elementi ci sono tutti per un altro successo stellare dopo L’ipnotista (2010) e L’esecutore (2011), tutti usciti da Longanesi.

Mi ero occupato di Lars Kepler (il nome è lo pseudonimo dietro cui si cela una coppia di serissimi scrittori, saggisti e drammaturghi – Alexandra Coelho Ahndoril e Alexander Ahndoril – riciclatisi giallisti, o meglio noir-isti) all’epoca dell’uscita di L’ipnotista. La domanda che si poneva allora era se la civilissima Svezia fosse il paradiso che tutti credevamo o l’inferno che, a partire da Stieg Larsson e la sua trilogia Millennium (portata in Italia dall’editore Marsilio), abbiamo cominciato a scoprire: racconto di un mondo affollato di neonazisti, servizi segreti deviati, corruzione, serial killer e un’eroina, Lisbeth Salander, tutta computer, web e violenza. A dar retta all’ondata di violenza che da Stoccolma, da allora, è arrivata sui banchi delle nostre librerie, altro che inferno.
Ehi, ma la Svezia non era quel Paese di sogno un po’ staccato dal mondo, scrivevo, splendidamente isolato, giardino dell’eden della libertà sessuale, dove la gente era alta, bella e bionda, tutto funzionava, la morale era tenuta a bada da una rigorosa etica protestante e la povertà non esisteva?

Il fatto è che la globalizzazione ha prodotto spaccature e tensioni persino nello splendido isolamento della tollerante Svezia, esasperando le inquietudini e creando contrasti sociali che spesso esplodono in violenze di strada e violenze private, nel chiuso delle famiglie che, come il vapore compresso in una pentola a pressione, deve uscire in qualche modo, pena l’esplosione. E tutto questo ha finito per riflettersi nel cinema, nella musica, nella letteratura.
All’epoca di Larsson facevo notare come, a pensarci bene, questa ondata di “gialli smörgåsbord” sta alla Svezia come gli “spaghetti western” stavano all’Italia: violenti e smodati i nostri western; barocchi e traboccanti i loro noir, proprio come lo sono i tipici buffet svedesi (smörgåsbord, appunto), ricolmi di eccessi gastronomici di ogni tipo.

Al pari degli “spaghetti western”, i noir svedesi, sono stati dapprima una ventata di novità, di geniale invenzione. All’inizio, negli anni Sessanta,  fu la coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö, con il loro ispettore Martin Beck, a sollevare interesse per la narrativa poliziesca nordica, poi fu il turno di Henning Mankell e del suo commissario Wallander. Investigatori che, comunque, si muovono entro le regole del poliziesco, con una novità: la denuncia sociale. A parte la novità, per noi mediterranei, dell’esotica ambientazione scandinava, dei nomi improbabili (Joona Linna è un uomo o una donna?) e dalla pronuncia difficile (Tuvefjäll).

È comunque Stieg Larsson, con il successo stellare della sua trilogia Millennium, a definire la nuova identità del giallo scandinavo, a creare la ricetta del successo conemporaneo. Dice Pirkko Peltonen, giornalista e scrittrice finlandese che da anni vive in Italia e con cui avevo parlato allora: «Questa nouvelle vague del giallo è un fenomeno ampio che investe non solo la Svezia, ma tutti i paesi scandinavi, dalla Finlandia alla Norvegia, dalla Danimarca all’Islanda. Il racconto poliziesco è un format che permette di raccontare la modernità, affermare la verità con passione. Sì, perché a differenza di quanto generalmente si crede, gli scandinavi sono profondamente passionali. Ardore che si ritrova soprattutto nei romanzi di Larsson e che talvolta può trasformarsi purtroppo in violenza. Lì da noi c’è infatti l’annoso problema della violenza familiare che spesso si nasconde alla vista, che scorre come un fiume carsico nelle vite di molti. Se fa attenzione, questo si percepisce anche nei film apparentemente pacati di Ingmar Bergman dove si cela invece una violenza repressa. Si pensi al personaggio del pastore fanatico e inflessibile, il patrigno di Fanny e Alexander del film omonimo. Da una parte c’è la sua maschera publica, rigida e austera, dall’altra il volto privato, preda di attacchi d’ira incontrollata».

E dire che già negli anni Sessanta un improbabile Alberto Sordi, pur con i suoi modi scanzonati, aveva buttato un sasso nello stagno delle certezze e degli stereotipi con il film Il diavolo, del 1963, girato a Stoccolma, vincitore dell’Orso d’Oro al festival di Berlino.
Certo non un capolavoro (anche se, poi, Sordi vinse con questo film un Golden Globe), non un’analisi sociologica, ma realistico quel tanto da spingere un attento osservatore come lo scrittore e regista Mario Soldati a chiamare gli svedesi «ipocriti». Il film, annotava Soldati, è «una potente, spietata demistificazione della Svezia».
 Ma il mito è più forte di qualsiasi osservazione critica. Soprattutto da noi, qui a sud delle Alpi. Nemmeno l’impunito omicidio del primo ministro svedese Olof Palme, nel 1986, aveva scalfito la nostra idea di Svezia. I tentacoli di quell’indagine arrivarono persino a sfiorare pesantemente il nostrano mondo piduista (poi la pista, apparentemente, si sgonfiò) .
Fino all’arrivo di Stieg Larsson, appunto, con le sue riflessioni a tinte fosche sui malesseri della società, e fino all’arrivo dei suoi epigoni. Fatto sta che dopo Larsson è stata una corsa sfrenata a salire sul carro milionario del noir svedese che si è venduto praticamente a scatola chiusa, anche se da qualche tempo il filone aurifero – a parte per alcuni autori di rango come Kepler, appunto – si sta un po’ raffreddando (anche perché comincia a scarseggiare la materia prima che è stata saccheggiata abbondantemente).
Ma come si riesce a creare a tavolino un “dopo-Larsson” che sia possibilmente un best-seller? Con l’eccesso naturalmente. Il marketing insegna. La saga dei vampiri insegna. E l’eccesso, nel mondo del noir, sta nel numero di morti, nella dose di violenza e di sangue.

Non è un quindi caso che, per esempio in L’ipnotista di Kepler (di cui si annuncia la versione cinematografica in uscita a ottobre 2012, diretta da Lasse Hallström – quello di Chocolat e Le regole della casa del sidro), già nelle prime pagine, le vittime erano “pestate a sangue, prese a calci, picchiate, accoltellate”; una bambina veniva segata in due: “la parte del busto e le gambe erano sulla poltrona davanti alla televisione”; un uomo veniva ripetutamente pugnalato fino ad amputargli un braccio e “il petto era così lacerato da sembrare una scodella piena di poltiglia sanguinolenta”. Appunto, proprio come nei nostri “spaghetti western”, stracolmi di rivoltellate, di morti raccontate con un sadico rallentatore, dove più si sparava e moriva, più si vendevano biglietti.

Così, messa in naftalina l’immagine di una società trasparente, pacifista, solidale, ecco comparire nella narrativa scandinava psicopatici affetti da patologie ai limiti del credibile. E se è vero che «non siamo proprio a Chicago», come ribadisce un personaggio di The Indian bride della regina del crimine norvegese Karin Fossum, ma è certo che, per dirla con un poeta, accademico di Svezia, Torgny Lindgren: «Oggi c’è nostalgia per un Paese, la Svezia, che non c’è più. È come se il male del mondo ci avesse raggiunto. Abbiamo perduto l’innocenza e nessuno ce la può rendere».
di Claudio Castellacci.(al coniglo agile)


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Sono andato, tornato, ripartito.

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E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.